STORIA  PER  NON  DIMENTICARE

Cosa si intende per MAROCCHINATE

Il termine marocchinate viene usato per indicare lo stupro di massa attuato dai goumier francesi, inquadrati nel corpo di spedizione francese in Italia (CEF), ai danni di alcune MIGLIAIA di individui di ambo i sessi e di tutte le età durante la campagna d'Italia della seconda guerra mondiale, avvenute in particolare dopo la battaglia di Montecassino.

Le testimonianze

Il sindaco di Esperia (comune in provincia di Frosinone) affermò che nella sua città 700 donne su un totale di 2.500 abitanti furono stuprate, e alcune di esse, in seguito a ciò, morirono. Con l'avanzare degli Alleati lungo la penisola, eventi di questo tipo si verificarono altrove: nel Lazio settentrionale e nella Toscana meridionale.

Lo scrittore Norman Lewis, all'epoca ufficiale britannico sul fronte di Montecassino, narrò gli eventi:

« Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate... A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n'erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due - uno ha un rapporto normale, mentre l'altro la sodomizza. »

(Norman Lewis nel libro Napoli '44

Diverse città laziali furono investite dalla foga dei goumier (truppe marocchine): si segnalano nella Provincia di Frosinone le cittadine di Esperia, Castro dei Volsci, Vallemaio, Sant'Apollinare, Ausonia, Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, San Giorgio a Liri, Coreno Ausonio, Morolo e Sgurgola, mentre nella Provincia di Latina si segnalano le cittadine di Lenola, Campodimele, Sabaudia, Spigno Saturnia, Formia, Terracina, San Felice Circeo, Sabaudia, Roccagorga, Priverno, Maenza e Sezze, in cui numerose ragazze e bambine furono ripetutamente violentate, talvolta anche alla presenza dei genitori[4].

Numerosi uomini che tentarono di difendere le proprie congiunte furono uccisi o violentati a propria volta. Su tutti, il caso del parroco di Esperia don Alberto Terrilli, il quale cercò invano di salvare tre donne dalle violenze dei soldati: fu legato e sodomizzato tutta la notte, morendo due giorni dopo per le sevizie riportate.

A Pico i soldati statunitensi del 351º reggimento fanteria (della 88ª divisione di fanteria, i cui membri erano soprannominati i "blue devils" per la loro ferocia in combattimento) giunsero mentre i goumier stavano compiendo le violenze, ma furono bloccati dal comandante francese del reparto, che disse loro che "erano qui per combattere i tedeschi e non i francesi".

In una relazione redatta il 28 maggio 1944 del capitano italiano Umberto Pittali viene detto che “ufficiali francesi lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione” e “preferiscono ignorare” quanto accade]. Secondo un testo

« Addirittura c’è tra loro chi non ha paura di parlare di vero e proprio “diritto di preda” per i reparti marocchini. »

Conseguenze

Le reazioni delle autorità

Il 18 giugno del 1944 papa Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti per questa situazione. Ne ricevette una risposta accorata e al tempo stesso irata nei confronti del generale Guillaume. Ancora, il cardinale francese Tisserant rivolse una lamentela al generale Juin, che rispose che "si era provveduto alla fucilazione di 15 militari, accusati di stupri, colti sul fatto, mentre altri 54, colpevoli di violenze varie e omicidi, erano stati condannati a diverse pene compresi i lavori forzati a vita." Entrò quindi in scena la magistratura francese, che fino al 1945 avviò 160 procedimenti giudiziari nei confronti di 360 individui. I reparti coloniali vennero alla fine ritirati e la 2ª divisione marocchina venne reimpiegata sul fronte tedesco ,nella Foresta Nera e a Freudenstadt, nell’aprile del 1945, dove accaddero ancora episodi di stupri e rapine.

Il giallo del volantino

Per quanto l'originale sia introvabile, si conosce la traduzione di un volantino in francese e arabo che sarebbe circolato tra i goumier:

« Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete »

La storia del volantino, tuttavia, potrebbe essere stata solo una storia messa in giro per far ricadere la colpa dell'intera vicenda sul generale Juin. Con l'accettazione dell'esistenza di questo volantino (della cui reale esistenza non esistono prove), infatti, si nega la possibilità che questo fenomeno abbia interessato mezza Italia.

Un'ulteriore prova che questo fenomeno non fosse circoscritto alle 50 ore di cui parlerebbe il volantino sarebbe la presenza di moduli prestampati per denunciare le violenze effettuate dai marocchini.

Anche se si nega l'esistenza del volantino, tuttavia, l'acquiescenza di comandanti ed ufficiali ed il carattere sistematico delle violenze hanno portato a definire l'idea di una libertà di azione concessa ai soldati nei confronti dei civili. Ai soldati marocchini, cioè, sarebbe stato concesso il diritto di preda.

Dati sulle violenze

Una nota del 25 giugno del 1944 del comando generale dell'Arma dei Carabinieri dell'Italia liberata alla Presidenza del Consiglio, segnalerebbe nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo, e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno 1944, giorni della liberazione di Roma), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi, e 517 furti.[11]

Numerosi stupri si sono verificati anche nei comuni di Latina, Lenola, Campodimele, Fondi,Formia,Sabaudia,San Felice Circeo,Sezze,Cori, Norma,Roccagorga, Maenza,Prossedi,Spigno Saturnia,Frosinone,Ceccano,Giuliano di Roma,Vallecorsa,Castro dei Volsci, Villa Santo Stefano,Amaseno,Esperia,Supino,Pofi, Pratica,Pastena,Pico,Pontecorvo.

Le stime ammonterebbero a circa 3.100 casi, come riportato in una inchiesta italiana sottostimata per difetto fino ai dati probabilmente inverosimili delle 50.000 denunce presentate entro la fine del conflitto.

Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi (presidente dell'UDI) denunció che solo nella Provincia di Frosinone vi erano state 6.000 violenze da parte delle truppe "Magrebine" del generale Alphons Juin. Al convegno "Eroi e vittime del '44: una memoria rimossa" tenutasi a Castro dei Volsci il 15 ottobre 2011, il Presidente dell'Associazione Nazionale Vittime delle "Marocchinate" Emiliano Ciotti fa una stima dello stupro di massa:

« Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono un minimo di 20.000 casi accertati di violenze, numero che comunque non rispecchia la verità; diversi referti medici dell'epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, sia per vergogna o pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal "Corpo di Spedizione Francese", che iniziò la proprie attività in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 18.000 violenze carnali. I soldati magrebini mediamente stupravano in gruppi da 2 (due) o 3 (tre), ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100,200 e 300 magrebini »


Via Rasella 23 MARZO 1944

ATTENTATO DI VIA RASELLA IN ROMA DEL 23 MARZO 1944 -

DEFINIZIONE COME LEGITTIMA AZIONE DI GUERRA, AI SENSI

DEL D. L.VO LGT. 12 APRILE 1945 N. 194.

 

(Cassazione - Sezione I Penale - Sent. n. 1560/99 - Presidente R. Teresi -  Relatore A. Mabellini)

 

OGGETTO DEL RICORSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

 

I - Con "ordinanza" 16.4.98 il G.i.p del Tribunale di Roma disponeva l'archiviazione del procedimento a

carico di B.R., C.C. e B.P., avente ad oggetto l'ipotesi del reato di strage prevista dall'art. 422 c.p. in

relazione all'attentato compiuto in Roma, Via Rasella, il 23.3.1944. Il procedimento era stato instaurato su

denuncia di prossimi congiunti di civili rimasti uccisi nell'attentato (I. e Z.), o uccisi dai tedeschi alle

"Fosse Ardeatine" (G.), nonché da F. G. quale "Segretario Generale Nazionale del Comitato di difesa del

cittadino".

 

Chiesta dal P.M. l'archiviazione, per estinzione del reato in virtù dell'amnistia disposta con D.P.R.

5.4.1944 n 96, trattandosi di atti commessi "per motivi di guerra" (nel senso di compiuti al fine di

liberare l'Italia dall'occupazione tedesca, ma non qualificabili come "atti di guerra" in senso stretto) ed

oppostesi le parti offese, il G.i.p. aveva ordinato ulteriori indagini, escludendo la notorietà

dell'episodio, quanto alle concrete modalità con le quali esso si era svolto, e ritenendo necessario

accertare se la strage corrispondesse al fine ritenuto dalle ricostruzioni storiche ovvero a meno nobili

ragioni relative ai contrasti tra i gruppi politici che componevano il fronte di liberazione nazionale.

 

In esito alle indagini il G.i.p., con il provvedimento qui impugnato, ricostruiva il fatto, ed escludeva che

esso potesse rientrare tra le azioni di guerra non punibili, indicate dal D.L.vo Lgt. n. 194 del 1945 come

"gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di

lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica".

 

Osservava che la qualificazione del fatto come "atto legittimo di guerra" attribuita dalla Corte di

Cassazione a Sezioni Unite civili (sentenza n 3053 del l9.7.1957) non aveva valore nel procedimento penale e

che, trattandosi di reato che offende beni personalissimi dell'uomo, non era applicabile la "speciale causa

di non punibilità" prevista dal D.L.vo Lgt. 12.4.1945 n. 194.

 

Ricordava che gli artt. 174 e 175 c.p.m.g. puniscono i metodi ed i mezzi di guerra vietati dalla legge o

dalle convenzioni internazionali, sottolineando che, in caso di interpretazione diversa, mancherebbe di

significato l'amnistia emanata, relativa a "qualsiasi tipo di reato". Escludeva pertanto che il fatto

potesse qualificarsi "atto legittimo di guerra", ravvisava invece tutti gli estremi oggettivi e soggettivi

del reato di strage.

 

Riteneva, sulla base degli atti di indagine disposti, che l'attentato, nell'intenzione degli agenti, fosse

stato progettato ed attuato sicuramente ai fini patriottici indicati dal D.L.vo Lgt. n. 96 del 1944, e

disponeva di conseguenza l'archiviazione degli atti dichiarando estinto il reato per amnistia, in conformità

a quanto richiesto sin dall'inizio dal P.M..

 

Osservava poi che nella fase delle indagini preliminari non è consentita l'applicazione dell'art. 129 c. 2

c.p.p. con esame del merito, riservato al processo in senso proprio, e che quindi il giudice era esonerato

"da ogni valutazione circa l'applicabilità o meno alla presente fattispecie delle disposizioni di cui al D.

L.vo. Lgt. 12.4.l945 n. 194 sulla non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell'Italia occupata";

aggiungeva da ultimo: "Dopo tutto quanto sin qui esposto, ci si potrà forse chiedere alla fine se quel che

avvenne in via Rasella il 23.3.1944 sia stato veramente necessario od anche soltanto opportuno, avuto

riguardo alla prevedibilità di una spietata reazione da parte dei tedeschi. Ad avviso del decidente, però,

tali questioni, sulle quali si sono insistentemente soffermate le parti offese, se possono trovare legittimo

ingresso nell'ambito di un dibattito etico, politico e storico, non possono assumere rilevanza giuridica

alcuna ai fini del presente procedimento. Ne', d'altro canto, è consentito al giudice esprimere valutazioni

che non siano estremamente pertinenti al 'thema decidendum' ad esso assegnato".

 

II - Hanno proposto ricorso in cassazione B. P., B. R. e C.C., partecipi all'attentato, deducendo i seguenti

motivi, approfonditi dalla memoria difensiva successivamente depositata.

 

1) Il provvedimento impugnato doveva considerarsi abnorme, poiché il giudice, prima di affermare di non

poter scendere nel merito, come consentito nella fase dibattimentale dall'art. 129 c. 2 c.p.p. e di essere

esonerato dal valutare l'applicabilità alla specie del D.L.vo Lgt. 12.4.95 n. 194 su11a non punibilità delle

azioni di guerra dei patrioti nell'Italia occupata, si era profuso sul tema, giungendo alla conclusione che

l'attentato di via Rasella non poteva essere qualificato come atto legittimo di guerra, sulla base di una

discutibilissima analisi delle disposizioni di diritto internazionale e della normativa post-bellica. La

costruzione irrituale, fondata anche su precedenti giurisprudenziali distorti, qualificava l'ordinanza tra i

cosiddetti "atti extra-vagantes" ricorribili per cassazione.

 

2) Le valutazioni espresse dal G.i.p. sulla non configurabilità dell'attentato di via Rasella quale atto di

guerra, con riferimento al codice penale militare di guerra, non erano di sua competenza La legittimità

dell'atto era già stata comunque ritenuta in altre sentenze, tra cui quella emessa dalle Sezioni Ulite

Civili della Cassazione, nella quale si era correttamente considerato che l'assoluta discrezionalità

dell'attività bellica non consente al giudice alcun controllo diverso da quello relativo alle finalità

dell'atto.

 

3) Il provvedimento di archiviazione non può mai contenere accertamenti pregiudizievoli alla persona

sottoposta alle indagini o ai terzi, principio questo conforme all'art. 24 della Costituzione e disatteso

nel caso in esame.

 

4) Dovrebbe altrimenti dichiararsi costituzionalmente illegittimo l'art. 129 c. 2 c.p.p., in relazione agli

artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non ne è consentita l'applicazione al giudice al quale

il p.m. abbia richiesto l'archiviazione degli atti.

 

Nella memoria difensiva l'eccezione di incostituzionalità veniva sviluppata in modo diverso, con riferimento

all'art. 411 c.p.p., "in relazione agli artt. 3/1° c., 24/2° c., 111/2° c. Cost. per la parte in cui applica

le disposizioni di cui all'art. 409 1°c. c..p.p., e quindi consente l'archiviazione degli atti anche nel

caso in cui l'applicazione dell'amnistia sia subordinata ad un procedimento giurisdizionale di accertamento

costitutivo nel quale la valutazione della sussistenza nel fatto di determinate circostanze (nella specie,

la particolare finalità patriottica del fatto) e del loro valore rappresenta l'intervento necessario ed

inderogabile della scienza e della volontà del giudice che contribuisce a rendere concreta ed effettiva la

realtà estintiva astrattamente delineata dal legislatore". Si rileva la disparità di trattamento tra i

cittadini che a norma dell'art. 129 c.p.p. sono ammessi a dimostrare l'esistenza delle condizioni di cui al

2° comma dello stesso articolo, e perciò ad ottenere eventualmente una sentenza di assoluzione o di

improcedibilità, e ad impugnare, se del caso, la sentenza stessa, in conformità al diritto inviolabile di

difesa ed al principio di ricorribilità delle sentenze, e coloro che restano privati di tutti tali diritti e

facoltà in forza di un sommario procedimento di archiviazione, che tuttavia motiva il suo aspetto decisorio

con l'apodittica affermazione relativa all'esistenza del reato.

 

L'incostituzionalità dell'art. 411 c.p.p. è eccepita nella memoria, con riferimento all'art. 77 della

Costituzione, anche sotto il diverso profilo della violazione dell'art. 2 n. 50 della legge delega n. 81 del

1987, che prevede la possibilità dell'archiviazione solo per manifesta infondatezza della notizia di reato,

per essere ignoti gli autori dello stesso o per improcedibilità dell'azione penale, mentre le due

fattispecie sono richiamate nella direttiva 52 fra i casi per i quali può essere pronunziata sentenza di non

doversi procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p., come modificato dalla legge 8.4.93 n. 105.

 

III - Il Procuratore Generale presso questa Corte nella propria requisitoria scritta disattende la tesi

difensiva concernente l'abnormità del procedimento impugnato. Considera che "se non appare contestabile che

il G.i.p., pur invocando principio del tutto diverso, si sia di fatto lasciato andare a giudizi di merito,

peraltro 'moralmente' sfavorevoli agli indagati, questa operazione - sui cui contenuti opinabili dal punto

di vista giuridico e storico è opportuno in questa sede non soffermarsi per non introdurre ulteriori motivi

fuorvianti - è stata attuata per così dire andando 'oltre' quanto fosse per forma e sostanza necessario a

dare concrete risposte alla richiesta di archiviazione. Questa sovrabbondanza per la sua 'smaccata'

ultroneità non è capace di comunicare i suoi 'vizi' all'organica - e chiaramente sussistente - compatibilità

con le premesse poste dal P.M. ossia al suo contenuto decisorio".

 

Ritiene manifestamente infondata la eccezione di costituzionalità proposta, considerando che proprio le

censure dei ricorrenti sull'uso distorto del principio di cui all'art. 129 c. 2 fatto nell'ordinanza

indicano come non sia verificabile in astratto la dedotta disparità di trattamento.

 

Conclude per l'inammissibilità del ricorso proposto.

 

IV - Ciò premesso, la Corte osserva quanto segue.

 

1) Il decreto di archiviazione disciplinato dagli artt. 408 - 411 c.p.p. è un provvedimento concepito dal

legislatore come anteriore all'esercizio dell'azione penale, correlato alla insussistenza degli estremi per

esercitarla, che in nessun modo può pregiudicare gli interessi della persona indicata come responsabile

nella notizia di reato o l'interesse della pubblica accusa a riaprire le indagini nel caso previsto

dall'art. 414 c.p.p.. Per tale sua natura, di provvedimento in qualche modo "'neutro", non ne sono previsti

mezzi d'impugnazione.

 

2) L'unica forma d'impugnazione consentita contro il decreto di archiviazione e connessa alla sua eventuale

abnormità, in virtù della giurisprudenza che ammette il ricorso per cassazione, a norma dell'art. 111 della

Costituzione, nei confronti del provvedimento caratterizzato da vizi "in procedendo" o ''in iudicando" del

tutto imprevedibili per il legislatore, il quale proprio per l'estraneità dell'atto al sistema legislativo

non ha previsto contro di esso alcun mezzo d'impugnazione (sul punto, tra le altre, Cass. Sez. III 8.8.96,

Cammarata, RV. 206058). Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (12.2.98 n. 17, Di Battista, R.V. 209603)

"è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto risulti

avulso dall'intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di

legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni

ragionevole limite. L'abnormità dell'atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché

l'atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il

profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e

l'impossibilità di proseguirlo".

 

3) I ricorrenti deducono l'abnormità del provvedimento di archiviazione adottato nei loro confronti per

essere estinto "il reato contestato" (cfr. pag. 29 del provvedimento impugnato) per amnistia, siccome emesso

in esito ad ampia e particolareggiata motivazione con la quale si è accertata la loro colpevolezza per il

delitto di strage. La doglianza formulata, considerata in astratto, corrisponde al concetto di abnormità

considerato, poiché la natura "neutra" del decreto di archiviazione, emesso in una fase in cui gli elementi

relativi alla notizia di reato sono ancora amorfi e fluidi, è radicalmente incompatibile con la dichiarata e

motivata attribuzione di un reato ad un determinato soggetto. Un provvedimento che abbia le caratteristiche

denunziate nel ricorso si pone pertanto al di fuori del sistema legislativo, che impone l'esercizio in

contraddittorio dell'azione penale prima dell'accertamento di un reato a carico di una persona denunciata.

 

L'abnormità lamentata in coerenza alla natura del provvedimento impugnato rende quindi ammissibile l'unico

mezzo d'impugnazione consentito nella ipotesi considerata.

 

4) Il ricorso, oltre che ammissibile, è fondato, poiché l'abnormità denunziata è reale.

 

Il provvedimento di archiviazione impugnato, che l'art. 409 c.p.p. prevede sia emesso nelle forme del

"decreto", è qualificato come "ordinanza", ed ha peraltro il taglio motivazionale tipico della sentenza, in

quanto, dopo aver ricostruito il fatto ed il ruolo in esso svolto dai tre ricorrenti, per ben sei pagine

(ff. 24-29) si esprime sulla qualificazione di esso e sulla configurabilità del delitto di strage. Lo schema

è quello previsto dall'art. 129 c.p.p., del quale a pag. 35 il G.i.p. riconosce peraltro la inapplicabilità

alla fase delle indagini, ammettendo espressamente che le questioni poste dalle parti offese, oggetto della

motivazione precedentemente estesa, non potevano "assumere rilevanza alcuna ai fini del presente

procedimento".

 

Osserva al riguardo il Collegio che ai sensi degli artt. 408 e 411 c.p.p. l'archiviazione può essere

disposta se la notizia di reato è infondata, ovvero perché manca una condizione di procedibilità, perché il

reato è estinto o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. All'archiviazione non si applica

l'art. 129 c.p.p., che al secondo comma dispone la prevalenza delle cause di declaratoria di non punibilità

di natura sostanziale rispetto a quelle connesse alla estinzione del reato. La norma è infatti dettata per

"ogni stato e grado del processo", ed è quindi estranea alla fase in questione, anteriore all'esercizio

dell'azione penale (in senso conforme, Cass. Sez. VI, 5.3.98, Boccardi, RV. 210826; Sez. V, 18.3.97,

Giustini, RV. 207901; Sez. VI, 7.9.94, Rosco, RV. 199084; sulla manifesta infondatezza della questione di

costituzionalità proposta sul punto specifico con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., Cass. Sez. VI,

7.7.92, Zanetti ed altri, RV. 19l053, che ha escluso la disparità di trattamento denunziata rispetto al

rinviato a giudizio nei cui confronti debba essere emessa sentenza di proscioglimento, in considerazione

dell'assoluta diversità delle situazioni disciplinate, e dell'assenza, in caso di archiviazione, di diritti

o interessi da tutelare in capo al soggetto).

 

La inapplicabilità al decreto di archiviazione dell'art. 129 c.p.p. comporta che il giudice, al quale il

provvedimento sia chiesto per motivi attinenti all'estinzione del reato, non debba motivare in ordine alla

impossibilità di archiviare per motivi diversi, inerenti alla non configurabilità del reato. Si e ritenuto

peraltro, in considerazione del favore che incontra nel nostro ordinamento la scelta della formula

liberatoria più ampia, che il G.i.p. al quale sia stata chiesta l'archiviazione per difetto di una

condizione di proseguibilità o di procedibilità dell'azione penale o per intervenuta estinzione del reato

possa, in alternativa all'adesione richiesta del P.M., archiviare la "notitia criminis" per manifesta

infondatezza ai sensi dell'art. 408 c.p.p. (in tal senso Cass. Sez. VI, 1910, 16.11.90, Sica, RV. 185768,

edita in Foro It. 1991, II, 516). Non è invece ammissibile che l'analisi e le conclusioni del G.i.p. in tale

fase si rivolgano "in malam partem", facendo precedere alla indicazione del motivo formale per il quale

l'archiviazione è disposta una motivazione sostanziale, che concerna la configurabilità del reato e la

responsabilità dell'indagato in ordine ad esso (nello stesso senso la sentenza sopra citata, che ha ritenuto

l'abnormità del provvedimento con il quale il G.i.p., a fronte della richiesta del p.m. di archiviazione

degli atti per estinzione dei reati per amnistia, prima di esprimersi in senso conforme aveva accertato con

diffusa motivazione l'esistenza di elementi di responsabilità a carico del denunciato. Conformi Cass. Sez.

VI, 7.9.94, Rosco, RV. 199084, che ha ritenuto abnorme il decreto di archiviazione emesso per amnistia,

preceduto dal rilievo che non risultava evidente l'insussistenza del fatto, e che la qualificazione

giuridica era corretta; Sez. V, 9, 18.3.97, Giustini RV. 207901, in tema di provvedimento pronunciato prima

dell'esercizio dell'azione penale, nel quale il G.i.p. con riferimento all'art. 129 c.p.p. ha usato la

formula, anziché di archiviazione, di "non luogo a procedere a carico dell'indagato in conseguenza della

morte di questi", preceduta dalla valutazione sulla mancanza di manifesti elementi in base ai quali

prosciogliere nel merito).

 

Poiché nella specie il provvedimento impugnato ha assunto natura diversa da quella meramente dichiarativa e

delibativa propria del decreto di archiviazione, e contiene uno specifico accertamento "in malam partem"

espresso nei confronti di persone nei cui confronti l'azione penale non era stata esercitata, si ravvisa la

sua abnormità in dipendenza dell'accertamento predetto, indipendentemente dalla correttezza o infondatezza

delle motivazioni che tale accertamento sorreggono. Dalla ritenuta abnormità segue l'annullamento del

provvedimento medesimo.

 

5) Le considerazioni che precedono evidenziano la irrilevanza, e al tempo stesso la manifesta infondatezza,

della eccezione di costituzionalità proposta. Gli artt. 408 - 411 c.p.p. non danno spazio per valutazioni

concernenti in positivo la responsabilità dell'indagato per un reato determinato, accompagnate dalla

archiviazione della "notitia criminis" relativa, e non può profilarsi, né si profila nel caso di specie, la

lesione dei diritti e degli interessi lamentata in conseguenza di un provvedimento che, in quanto abnorme, è

ricorribile in sede di legittimità e che deve essere annullato.

 

6) L'annullamento del provvedimento, qualificato come abnorme, pone al Collegio il problema di ulteriormente

provvedere in ordine alla possibilità di dare in questa sede le disposizioni necessarie per rendere la

decisione impugnata conforme alla legge, a norma dell'art. 620 lett. l c.p.p.. In questa prospettiva compete

certamente a questa Corte l'obbligo di considerare se il fatto, quale emerge dalle richieste del P.M. e

dalla ricostruzione attuata sulla base delle indagini disposte dal G.i.p., non risulti previsto dalla legge

come reato: e ciò in relazione alle specifiche osservazioni formulate con il ricorso.

 

Va osservato al riguardo:

 

a) L'attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 ai danni del battaglione di polizia tedesca "Bozen", nel

quale rimasero coinvolti alcuni civili italiani, fu compiuto mentre era in corso l'occupazione di gran parte

del territorio nazionale ad opera dei tedeschi a seguito degli eventi successivi all'armistizio dell'8

settembre 1943. A tale occupazione non si sottraeva Roma, che nonostante la sua qualifica di "città aperta"

(attribuita unilateralmente dal Governo Italiano prima dell'armistizio: cfr. Cass. Sez. U. Civ. 19.7.1957 n.

3053, in Foro It. 1957, I, 1398), era presidiata da truppe tedesche e sottoposta ad un durissimo controllo

di polizia militare e politica.

 

Contro tale occupazione in Roma e in tutta l'Italia centro-settentrionale sin dal 9 settembre 1943 si erano

andati spontaneamente organizzando gruppi di resistenza sia politica che militare.

 

L'attentato, accuratamente preparato (cfr. anche pag. 33 provvedimento impugnato), fu deciso ed attuato da

appartenenti a formazioni dei G.A.P. (Gruppi Azione Patriottica), dipendenti dal Comando Garibaldi per

l'Italia Centrale, e comandati in Roma all'epoca del fatto da Carlo Salinari. Essi erano collegati alla

Giunta Militare del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) attraverso Giorgio Amendola ed altri. I

G.A.P. rivendicarono apertamente la paternità dell'azione, diretta a contrastare l'occupazione tedesca ed a

restituire le libertà conculcate da regime fascista.

 

L'azione fu attuata facendo esplodere, mediante detonatore collegato ad una miccia, 18 kg. di tritolo

contenuti in un carretto per la spazzatura, in coincidenza del passaggio, usuale e previsto, di una

compagnia del battaglione "Bozen". Secondo la ricostruzione del consulente tecnico della parte offesa Z.,

riportata nel provvedimento impugnato (pag. 14), l'esplosione dell'ordigno ebbe a determinare la morte di 42

soldati tedeschi (dei quali 32 morti quasi immediatamente e gli altri nei giorni seguenti), e di almeno due

civili italiani, il minore P. Z. e A. C..

 

b) I1 fatto oggetto della richiesta di archiviazione proposta dal P.M. e del provvedimento impugnato per la

qualità di chi lo commise, per l'obiettivo contro il quale era diretto e per la finalità che lo animava,

rientra, in tutta evidenza, nell'ambito di applicazione del D.L.vo Lgt.12.4.1945 n. 194, che dispone: "Sono

considerate azioni di guerra, e pertanto non punibili a termini delle leggi comuni, gli atti di sabotaggio,

le requisizioni e ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e

i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica. Questa disposizione si applica tanto ai patrioti inquadrati

nelle formazioni militari riconosciute dai comitati di liberazione nazionale, quanto agli altri cittadini

che li abbiano aiutati o abbiano, per loro ordine, in qualsiasi modo concorso nelle operazioni per

assicurarne la riuscita".

 

Dalle premesse che precedono consegue che devono essere considerati infondati i motivi per i quali il

pubblico ministero che ha chiesto l'archiviazione prima, ed il G.i.p. poi, hanno escluso l'applicabilità

della norma alla specie, sotto il profilo che le operazioni considerate nell'articolo unico del decreto

luogotenenziale citato sarebbero esclusivamente quelle "di contorno", non coinvolgenti diritti primari della

persona umana. Il termine "operazioni", applicato ad un contesto che storicamente è di lotta armata,

comprende qualsiasi atto, anche cruento, volto a combattere il nemico. La "Legge di guerra" approvata con R

d. 8.7.1938 n. 1415, All. A, dedica l'intero "Titolo secondo" alle "operazioni belliche", che comprendono

"atti di ostilità" (Capo II, Sez. I) implicanti "l'uso della violenza" (art. 35), e il "bombardamento" (Capo

II, Sez. II).

 

L'interpretazione riduttiva del termine appare infatti non corretta dal punto di vista letterale, poiché

contrasta con l'espressione "ogni altra" che immediatamente lo precede; collide con la struttura sistematica

dell'articolo unico del decreto luogotenenziale, che collocando nell'ambito delle "azioni di guerra" gli

atti menzionati non può prescindere da quelle che sono in genere le caratteristiche delle azioni nel cui

novero gli atti medesimi sono inseriti; stride con la volontà del legislatore, desunta dalla situazione

storica nella quale la norma è stata emanata, indirizzata ad attribuire riconoscimento di liceità ad ogni

azione diretta alla liberazione del territorio nazionale ed alla fine del regime fascista, volontà

palesemente espressa in una serie di disposizioni di legge dell'epoca e successive, che qui di seguito si

richiamano.

 

- Il D.L.vo Lgt. 21.8.1945 n. 518 ha disciplinato "il riconoscimento delle qualifiche di partigiani e

l'esame delle proposte di ricompensa" in dipendenza della lotta armata partigiana.

 

- Il D.L.vo Lgt. 5.4.1945 n. 158 ha riconosciuto la qualifica di "patriota combattente", comportante

benefici di vario genere, tra gli altri, "agli organizzatori e ai componenti stabili od attivi di bande, le

quali abbiano effettivamente partecipato ad azioni di combattimento o di sabotaggio" (art. 9 lett. a, nel

quale l'equiparazione tra combattimento e sabotaggio evidenzia come sia errato, dalla menzione del

sabotaggio contenuta nel D.L.vo Lgt. n. 194 del 1945 qui in esame, desumere un significato ridotto,

concernente azioni di semplice "contorno", del successivo termine "operazioni").

 

- Il D.L.vo C.P.S. 6.9.1946 n. 226, che ha disciplinato il risarcimento a carico dello Stato dei danni

causati dalle "operazioni della guerra" poste in essere dalle forze armate nazionali, alleate o nemiche,

equipara alle forze armate "le formazioni volontarie partecipanti alle operazioni belliche".

 

- La legge 21.3.1958 n. 285, titolata "Riconoscimento giuridico del corpo Volontari della libertà (C.V.L.)",

ha riconosciuto il corpo stesso "ad ogni effetto, come corpo militare organizzato inquadrato nelle forze

armate dello Stato", con i conseguenti benefici economici e di carriera.

 

Si tratta di provvedimenti normativi connessi alla nostra Storia, alla formazione della Repubblica Italiana

ed ai principi sui quali la Costituzione si fonda (si pensi alla XII Disposizione Transitoria alla

Costituzione), conformi alla "intenzione del legislatore" pur se considerata oltre al momento in cui è stata

espressa ed in senso attuale.

 

Né la circostanza che l'amnistia disposta con D.L.vo Lgt. 5.4.1944 n. 96 avesse quale oggetto "tutti i

reati, quando il fine che li ha determinati sia stato quello di liberare la patria dall'occupazione tedesca,

ovvero quello di ridare al popolo italiano le libertà soppresse o conculcate dal regime fascista" (art. 1),

è dato idoneo ad escludere che un'azione avente le caratteristiche e gli effetti propri dell'attentato di

Via Rasella rientri nell'ambito di applicabilità del decreto luogotenenziale n 194 del 1945. La

promulgazione dell'amnistia è precedente, non successiva, al D.L.vo Lgt. n 194 del 1945, che ha tolto in

radice la natura di reato, inserendola tra le "azioni di guerra", ad ogni "operazione compiuta dai patrioti

per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione fascista". Ed ha una

sua innegabile e profonda "ratio" il fatto che, in quel momento storico, all'ampia formula dell'amnistia

disposta per un numero grandissimo di reati, individuati soltanto in relazione alla finalità perseguita, si

sia poi riconosciuta la totale irrilevanza ai fini penali di alcuni di essi, aventi caratteristiche

soggettive, obiettivi e modalità operative tali da renderli assimilabili ad ogni effetto ad "azioni di

guerra".

 

Quanto alla "necessità di lotta" contro gli obbiettivi indicati, si rileva che la natura dell'attività

bellica rende la valutazione sul punto discrezionale, evidentemente non sottoponibile da parte del giudice

ordinario ad un controllo che coinvolga "a posteriori" la efficacia de11'operazione prescelta a conseguire

gli obiettivi strategici perseguiti. Nel caso di specie l'attentato, commesso nei confronti di una

formazione nemica che occupava il territorio nazionale, volto a contrastare l'occupazione stessa, appare

caratterizzato da quegli inequivoci requisiti strutturali e teleologici che consentono al giudice di

qualificare l'azione predetta come "azione di guerra" in base al decreto luogotenenziale citato.

 

c) Si devono pertanto condividere le argomentazioni - richiamate espressamente dal G.i.p., ma dallo stesso

disattese (cfr. pagg. 24 e segg. provvedimento) - con le quali le Sezioni Unite Civili di questa Corte con

la sentenza 19.7.1957 n. 3053 sopra citata, pronunciando in tema di risarcimento del danno richiesto dalle

vittime civili dell'attentato di Via Rasella, ha stabilito che "la lotta partigiana è stata considerata

dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra", con conseguente improponibilità dell'azione

risarcitoria proposta. La statuizione, è chiaro, non vincola il giudice penale, a norma degli artt. 2 e 3

c.p.p., nel senso che non opera con efficacia di giudicato, ma costituisce indubbiamente un precedente

significativo per l'analisi penetrante ed esaustiva sviluppata sullo specifico tema concernente la

qualificazione dell'attività svolta dai gruppi partigiani avuto riguardo, in particolare, alla diversa

posizione attribuibile agli stessi in relazione, da un lato, agli atti di ostilità compiuti, all'epoca dei

fatti in esame nei confronti degli occupanti tedeschi, e, dall'altro, al loro rapporto nell'ambito

dell'ordinamento (interno) italiano.

 

Diverse, ma ad un attento esame non confliggenti, le situazioni e le conseguenti valutazioni recepite nelle

pronunce degli organi della giustizia militare concernenti l'attentato di via Rasella, ed aventi per oggetto

la "rappresaglia" attuata il giorno successivo dalle Forze Armate con l'uccisione di 335 cittadini italiani

alle Fosse Ardeatine.

 

Con sentenza 20.7.1948 n. 631, emessa contro Kappler ed altri (in "Rassegna della Giustizia Militare", 1996,

nn. 3-6, pag. 3), il Tribunale Militare di Roma, che pur ha escluso la legittimità della rappresaglia per

violazione del principio della proporzione, ha negato la natura di legittima azione di guerra

dell'attentato, in quanto non commesso da "legittimi belligeranti", in rapporto alla clandestinità

dell'organizzazione partigiana, all'epoca priva dei requisiti richiesti dall''art. 1 della Convenzione

dell'Aja del 18.10.1907.

 

Proposto ricorso da Kappler, il Tribunale Supremo Militare, con sentenza 25.10.1952 n. 1711 (ibidem, pag.

83) ha rovesciato tale impostazione dichiarando illegittimo l'esercizio della rappresaglia in relazione alla

legittimità dell'azione italiana: "Via Rasella, alla luce delle norme del diritto internazionale, si pone in

termini di rigorosa linearità: la sua qualificazione non può essere altro che quella di un atto di ostilità

a danno delle forze militari occupanti, commesso da persone che hanno la qualità di legittimi belligeranti".

 

Il tema della liceità dell'attentato, collegato alla illiceità dell'atto ritorsivo attuato con l'eccidio

delle Fosse Ardeatine, nelle due sentenze menzionate è stato affrontato in rapporto alla controversa qualità

di legittimi belligeranti degli attentatori all'epoca del fatto contestato, e non poteva certamente essere

risolto con riferimento al decreto luogotenenziale n. 194 del 1945, emanato successivamente alla

"rappresaglia" in questione. Tale soluzione non era consentita né dall'art. 23 c.p.m.g. sulla ultrattività

della legge penale militare di guerra, né dagli artt. 25 c. 2 della Costituzione e 2 c. 1 c.p., per i quali

il riconoscimento della legittimità dell'azione di via Rasella, in quanto qualificata con effetto

retroattivo "azione di guerra", non poteva valere ai fini della individuazione dell'illecito penale

contestato in quel procedimento.

 

Restano quindi estranee al "thema decidendum" attuale le motivazioni, formulate nella prima sentenza citata,

inerenti alla illegittimità dell'attentato con riferimento agli artt. 25 e 27 della legge di guerra (all. A

al r. decreto 8 luglio 1938, n. 1435, articoli di cui peraltro le Sezioni Civili di questa Corte,

nell'ambito di un "obiter dictum" contenuto nella sentenza citata, disconoscono l'applicabilità al caso di

specie, in quanto tali norme erano dirette solo a limitare i poteri dello Stato italiano nei confronti dei

cittadini di altri Stati con i quali sia in guerra), in rapporto alla clandestinità dell'organizzazione

partigiana, all'epoca priva di requisiti richiesti dall'art. 1 della Convenzione dell'Aja del 18.10.1907,

per la quale un atto di guerra legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi

volontari che, oltre ad essere comandati da una persona responsabile per i subordinati, abbiano un segno

distintivo fisso e riconoscibile a distanza, e portino apertamente le armi. Ma ciò posto in evidenza, non ne

deriva affatto la non riconducibilità allo Stato italiano, per quanto si riferisce al coinvolgimento

nell'attentato anche di vittime civili, dell'azione dei partigiani. Occorre rammentare infatti che, sin dopo

la dichiarazione dello stato di guerra nei confronti della Germania (13 ottobre 1943) il Governo legittimo

aveva incitato tutti gli Italiani a ribellarsi ed a contrastare con ogni mezzo l'occupazione tedesca (cfr.

Cass. Sez. U.Civ. n. 3053 del 1957 citata). Il fatto, innegabile, ma comune a tutti i movimenti di

resistenza, del loro carattere clandestino nei momenti iniziali, non è affatto in contrasto, pertanto, con

il riconoscimento delle attività in esame quali atti tipici di guerra. E la successiva legislazione si è

limitata semplicemente a darne atto.

 

d) La legittimità dell'operazione considerata, unitaria nell'azione e nello scopo perseguito, deve essere

pertanto valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari

tedeschi che ne costituivano l'obiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in

rapporto alla sua natura di "azione di guerra". Le azioni predette sono purtroppo per loro natura

caratterizzate da effetti consimili, come emerge dal "bombardamento" disciplinato dal Titolo II, Capo II

Sez. II della legislazione di guerra di cui al R.d. 1415 del 1938, all. A.

 

7) Esclusa così la configurabilità del reato di strage contestato, il provvedimento d'archiviazione

impugnato, abnorme, può essere riportato a legalità sostituendosi, a quella parte nella quale si dichiara la

responsabilità dei denunciati per il reato predetto e si motiva l'archiviazione sulla base dell'amnistia

disposta con D.L.vo Lgt. 5.4.1944 n. 96, la motivazione inerente alla non previsione del fatto come reato

dalla legge.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

visto l'art. 620 lett. l) c.p.p., annulla senza rinvio il provvedimento impugnato limitatamente alla parte

in cui dispone l'archiviazione per estinzione del reato per amnistia anziché perché il fatto non è previsto

dalla legge come reato.